martedì 4 ottobre 2011

LA LIBRAIA DI ORVIETO | romanzo di Valentina Pattavina




Elemento positivo: questo breve volume di narrativa nostrana denota uno stile brioso, leggero, scorrevole, impreziosito da citazioni e rimandi alla grande letteratura del nostro paese, incastonate nella trama e motivate dall'attività occasionale della protagonista, commessa in una libreria e appassionata lettrice.
Elemento negativo, tutto il resto.
La bilancia del giudizio finale pende purtroppo in netto sfavore per questo romanzo, la cui lettura, col senno di poi evitabile, si giustifica proprio solo in ragione della felicità dello stile e del poco tempo che ci sottrae.
Tralascio valutazioni troppo soggettive, come il fatto di trovare personalmente scostante, antipatica, fasulla (anche con sé stessa) e tremendamente egocentrica la narratrice Matilde Ferraris, quel tipo di persona che considera il proprio sacrosanto punto di vista come se fosse l’unico parametro disponibile per valutare il comportamento e i gusti altrui (una sorta di precipitato femminile delle caratteristiche peggiori dei protagonisti dei romanzi di Andrea De Carlo).
Se la scrittrice non si rispecchia nella protagonista, avrebbe fatto meglio ad evitare l'io narrante: così vien da pensare che la sig.ra Pattavina abbia voluto dar vita ad una proiezione della sua personalità.
Quello che reputo oggettivamente discutibile è semmai la scelta di supportare a tutti i costi il racconto di vicende di vita ordinaria e di microscopici drammi quotidiani (nel caso, peraltro nemmeno troppo interessanti), sparse sui primi due terzi del libro, con l'inserimento (che tradisce un tributo alla moda letteraria imperante) di un risalente mistero irrisolto e della conseguente immancabile indagine improvvisata, il cui successo finale appare forzato ed improbabile, dipendente com’è da meri colpi di fortuna e da sviluppi del tutto casuali.
Il risultato è che la storia principale, poco interessante e governato soprattutto dalle paturnie e dalle idiosincrasie un tantino isteriche ed irrazionali della protagonista, rimane fondamentalmente tale, cioè poco interessante, e al tempo stesso si rivela ugualmente poco stimolante anche il raccontino subordinato, ovvero la trama blandamente "gialla" (giallognola, vien da dire, per tanto che è esangue e statica) in cui inciampa la Libraia, investigatrice suo malgrado, con l'amico Michele, giornalista free lance. Vicenda nella vicenda nella quale, per ragioni talmente trasparenti e deboli da tradire a distanza l’astuto espediente, viene riesumato un antico delitto rimasto irrisolto, ma l'indagine viene sviluppata con poca convinzione sia dai protagonisti, sia dalla stessa scrittrice. Le spiegazioni finali risultano tanto "classiche", posto che ripropongono uno sviluppo appartenente alla grande tradizione del romanzo giallo (ne sanno qualcosa gli appassionati di Agatha Christie), ma anche del tutto prevedibili, con buona pace della drammaticità che avrebbero potuto conferire alle pagine finali del libro.
I personaggi, che dovrebbero apparire quantomeno verosimili, sono descritti in modo forzato, troppo grottesco e macchiettistico, e l'eccesso di ironia sferzante fa deragliare il racconto in un'inutile deriva farsesca, con perdita di attendibilità dell’intero canovaccio.
Insomma, ho avuto l'impressione di leggere una versione ancora più scialba dei già desolanti gialletti di Mario Vichi con il commissario Bordelli. L'autrice cerca invano di nobilitare l'ambiente geografico, Orvieto, una cittadina che nonostante gli oltre 20.000 abitanti della realtà, nel libro appare piccina come fosse un paesino di 200 anime, e nemmeno troppo apprezzata: scatta inevitabile un confronto con i gialli psicologici di Perissinotto, soprattutto quelli con protagonista la dottoressa Pavesi, emigrata a Bergamo, dove la città ospite viene amata e descritta con ben più appassionato affetto dal romanziere e viene voglia al lettore di precipitarsi a visitarla.
L'unico vero mistero da risolvere, alla fine, è capire cosa siano e a cosa servano le frasette citate tra un capitolo dall'altro, che contribuiscono solo ad aumentare a tradimento il numero di pagine del volume. Sono a tratti incomprensibili, e comunque non hanno la minima attinenza con gli sviluppi narrativi del capitolo che introducono. Per un po' ho pensato fossero anticipazioni dei poemetti di "Madame Georgette", uno dei tanti assurdi personaggi che popolano il romanzo, le cui liriche vengono bollate come "bruttissime". Da qualche parte ho letto che dovrebbe trattarsi di estratti dal Libro di Giobbe. Va bene, non ho verificato, mi importa poco, dal momento che non si capisce come e perchè siano finite lì, tra un capitolo e l'altro, con buona pace per la foresta amazzonica.
Mi spiace essere così drastico e severo nel giudicare l'opera della sig.ra Pattavina.


Oggi in Italia devono essere davvero migliaia gli aspiranti scrittori che hanno un'opera di narrativa nel proprio cassetto, che non vede l'ora di essere pubblicata. Duole constatare come gli editor di una etichetta rispettabile come la Fanucci non abbiano saputo offrire la medesima occasione di ribalta a qualche prova d'esordio ben più valida di questa, un romanzetto che avrebbe avuto diritto di pubblicazione, a mio avviso, solo se fosse stata l'opera transitoria e perdonabile di qualche validissimo grande romanziere in pausa di riflessione, non certo un esordio letterario. Ma tant'è.

domenica 18 settembre 2011

NEMESIS | Mark Millar



Siamo in un momento storico in cui la cultura mediatica, soprattutto quella che sceglie la comunicazione a largo spettro mediante la fiction di "genere" (con i vincenti mix di horror, azione, violenza, fantascienza, spettacolarità, ecc.) subisce il pesante onere imposto dalle esigenze commerciali. E così il cinema è poco e brutto, soffocato da stereotipi, ripetitività e assenza di idee, mentre la buona narrativa è soffocata da montagne di romanzi tutti uguali (vampiri, zombie, tesori nascosti in vecchie biblioteche e gialli del nord europa e così via). Fanno ancora eccezione, per ora, i serial televisivi (mai così trasgressivi e ben scritti) e i comics. Soprattutto in questi ultimi sembra che tutto sia permesso, e i creativi geniali possono davvero dare sfogo alle loro invenzioni, incuranti di calpestare i "sancta sanctorum" del bon ton e del politically correct. Lo sa bene, è evidente, Mark Millar, uno degli scrittori di fumetti più geniali che si siano mai visti, che nel giro di pochi anni ha sfornato capolavori come WANTED, CIVIL WAR e KICK-ASS. Non smentisce questa straordinaria sequela di grandi titoli nemmeno la sua ultima dirompente graphic novel NEMESIS, dove l'autore ripropone un tema sempreverde come quello della vendetta, ma lo reinventa come solo lui sa fare. Accarezzando in modo lieve antiche leggende dell'immaginario collettivo come "Phantomas" (un cattivissmo vintage che i lettori meno giovani non possono aver dimenticato) e uno straordinario film degli anni '30 intitolato "The Most Dangerous Game" (storia ripresa anche, tra l'altro, nel romanzo "Danza macabra" di Dan Simmons, o nei film di Fincher "The Game" e "Zodiac"), Millar inscena in questo veloce e fulminante lavoro un complicatissimo mosaico narrativo, una trama ferrea che non lesina invenzioni e colpi di scena, e al tempo stesso si diverte con perfida ironia a frantumare quanto ci sia ancora di sacro nella nostra degradata civiltà moderna, sbattendoci in faccia ognuna delle grandi paure che ci asserragliano rimbalzando tra la realtà offerta dai quotidiani e quella deformata dal cinema (palazzi che crollano, aerei che si schiantano, gas velenosi, esplosioni in metropolitana, presidenti rapiti, e soprattutto famiglie aggredite e dilaniate dall'interno attraverso le loro debolezze, le loro paure e soprattutto i vincoli autoimposti in nome di dogmi etici e religiosi sempre più ipocritamente venerati).
Questo fumetto (quanto sembra ormai riduttivo usare l'antico termine "fumetti" per indicare lavori così intelligenti e profondi e trasversali) è ardito e trasgressivo al punto da richiedere una giusta "vietatura" ai minori. Ma al lettore dallo stomaco forte offre una ventata di irriverente e autentica spregiudicatezza narrativa, come raramente capita di leggere.
Duole un po' il prezzo: per un'ora di lettura, più un'altra ora supplementare da dedicare alla dovuta contemplazione del dinamismo delle tavole e dell'arte illustrativa di Steve MacNiven (così essenziale per offrire al racconto la sua tagliente potenza espressiva), si spendono ben dodici euro.

martedì 13 settembre 2011

OUT OF SIGHT | Elmore Leonard





Qualche mese fa ho letto la ricca antologia pubblicata da Einaudi con la raccolta quasi integrale dei racconti western che Leonard scrisse agli inizi della sua attività di narratore, e cioè nella seconda metà degli anni 1950. in questi giorni ho invece terminato la lettura di questo romanzo datato 1996, scritto quindi quarant'anni dopo, in un genere molto diverso, ovvero la crime story, calata nella realtà urbana moderna, tra rap e crack, pugili e bande rivali, sullo sfondo di città dell'east coast contrapposte e diverse come Miami e Detroit, paesaggi in cui si snodano le fila della trama del libro, agli antipodi geografici rispetto ai panorami selvaggi, inesplorati e dominati dalla natura incontaminata in cui si calavano le novelle western di quasi mezzo secolo prima.
Se anche per molti aspetti ovvio, è curioso constatare quanto sia evoluto e cambiato lo stile di questo scrittore, ma forse sorprende ancora di più notare invece quali siano i punti fermi del suo approccio al romanzo muscolare e d'azione, che sono rimasti invece invariati nel tempo.
Sotto il primo versante, Leonard è diventato estremamente più cinico, disincantato, e al tempo stesso più rude e brutale nel rappresentare al lettore gli sviluppi violenti o torbidi delle sue storie. I personaggi sono molto più sfaccettati e ambigui, il linguaggio stesso si fa spregiudicato, intriso di una volgarità inevitabile per coerenza con il taglio realistico delle ambientazioni.
Sotto l'altro versante, vale a dire le caratteristiche degli esordi a cui l'auotore è rimasto fedele negli anni, si nota come i racconti western fossero già sufficientemente imprevedibili da reggere il confronto con gli sviluppi del tutto sorprendenti di questo romanzo più recente. Questo fa onore a Leonard ed alla sua precoce sensibilità per il realismo del racconto, per la rinuncia agli schematismi e ai luoghi comuni. Naturalmente tanta spregiudicatezza brilla di più nei vecchi racconti degli anni '50, proprio perchè sfidavano le convenzioni dell'epoca con storie che - una volta portate al cinema, come spesso è accaduto - non hanno conservato la stessa grinta eversvia che avevano sulla pagina scritta. Questo ironico thriller attuale, pubblicato in un'era in cui impazzano le frenetiche e folli scorribande di autori come Lansdale e le disilluse cattiverie di gente come King, risulta inevitabilmente meno trasgressivo, ma si segnala ugualmente per il suo perfetto dosaggio dei registri narrativi ed emozionali. Il racconto segue gli sviluppi di un'improbabile storia d'amore, che è più il cedimento passeggero ad una reciproca infatuazione, a dire il vero, tra Karen Sisco, un'avvenente "sceriffa" (un U.S. Marshall, per la precisione, e cioè quei poliziotti dell'FBI che hanno il compito di braccare gli evasi e riconsegnarli alla giustizia, come il Tommy Lee Jones del famoso film IL FUGGITIVO, per intenderci), e Jack Foley, simpatico farabutto, un lestofante furbetto e sbruffone, troppo sopra le righe per essere un buon rapinatore. I due, nonostante la differenza d'età (lui è molto più vecchio) e soprattutto l'abisso professionale che li separa, si scoprono reciprocamente attratti e per un po' si lasciano guidare dagli istinti e dalle forze della seduzione. Intorno a loro ruota un microcosmo di criminali più o meno pericolosi ed incalliti e di poliziotti più o meno volenterosi ed efficienti, descritti con sagacia da Leonard, che si mantiene fedele ad un tratteggio rapido, abbozzato, ma sempre convincente dei caratteri, dei luoghi e degli eventi. Se fosse un disegnatore di fumetti, disegnerebbe sempre in bianco e nero e con forte contrasto nei chiaro/scuri.

giovedì 18 agosto 2011

LUPI MANNARI AMERICANI | Antologia di Michael Chabon (1999)



Prima ancora della sua attenta capacità di osservazione e di introspezione, prima della sua naturale e non artificiosa originalità, prima dell'ironia e dell'umorismo a tratti caustici, e prima ancora della sua sotterannea ma immancabile sensibilità ed empatia umana, di Michael Chabon va ammirata e venerata la sua geniale ed inarrivabile prosa, così fluida, espressiva, travolgente e creativa da inculcare nelle parole il potere di evocare direttamente nell'anima del lettore sensazioni, immagini, emozioni, utili a tratteggiare i suoi tristi personaggi e le loro disgrazie con vivido contrasto. Parole sempre perfette per farne comprendere le ossessioni e le ordinarie follie.

Al tempo stesso sono vibranti le trame dei racconti, sebbene mai lineari: il sapore di vita autentica che trapela dalle descrizioni, dalle indovinate similitudini, dalle frasi, provoca condivisione e trasporto emotivo, ci permette persino di superare le distanze geografiche e culturali con il piccolo e prosaico mondo americano in cui si sviluppano questi brevi, asciutti, ma fulminanti flash narrativi.

Dio conservi a lungo in salute questo eccezionale scrittore. E lo renda quanto più possibile prolifico.

LA DONNA DELLA DOMENICA | Carlo Fruttero - Franco Lucentini (1972)





Osservazione nr. 1: la trama di questo romanzo giallo avrebbe poco senso se si svolgesse in una località diversa da Torino e in un'epoca diversa dal 1972; è un intrigo strettamente radicato sul territorio in cui si svolge, oserei dire abbarbicato all'essenza stessa della "torinesità" e pertanto ogni tentativo di esportazione (di luogo, ma anche di tempo) ne comprometterebbe la consistenza e i sottili equilibri interni che lo rendono un capolavoro.

Osservazione nr. 2: è evidente che il punto focale dell'opera, l'epicentro dell'interesse che anima gli autori, non è (sol)tanto lo sviluppo del plot criminoso, dell'indagine condotta con sagacia ed efficienza dal siciliano Commissario Santamaria, con il lento, progressivo disvelamento dei molti misteri che circondano la grottesca morte dell'architetto Garrone, quanto piuttosto la ricostruzione di un'epoca e di un ambiente sociale, con tanto di amorevole (ma anche molto critica e a tratti maniacale) descrizione di una delle più inusuali città del nostro paese e dello stile di vita della sua bizzarra popolazione autoctona, esaminata nel suo selettivo isolamento così come nella riottosa e paventata interazione con le molte ondate di immigrazione che l'hanno investita fin dall'apertura dei cancelli della FIAT.

Nonostante quindi l'obiettivo dei caustici autori (ma anche indimenticati giornalisti, saggisti e opinionisti) sia principalmente puntato ad allestire un'intelligente, scientificamente accurata, complessa quanto basta e mai superficiale osservazione del microcosmo sociale della Torino del 1972, essi non hanno perso di vista nemmeno per un istante i dogmi del giallo canonico, non hanno trascurato di saggiare la solidità della loro trama mistery, che infatti risulta, a conti fatti, ineccepibile e perfettamente logica, oltreché non priva di tensione e di qualche brusca sorpresa (a cui dovranno invece rinunciare quelli che, come me, hanno già visto ed ammirato il bellissimo film di Comencini che era stato tratto negli anni '70 da questo libro; mi sono rifiutato di vedere la recente fiction televisiva, invece: mi sono bastati i trailer per capire che era meglio tenersene alla larga).

E non meno affascinante risulta essere la cura con cui vengono tratteggiati gli indimenticabili personaggi, verosimili e credibili, e proprio per questo tremendamente affascinanti, a partire dalla capricciosa Maria Carla e dal suo raffinato amico gay Massimo, che con i loro inesauribili battibecchi e il loro apparente distacco dalla quotidianità, offrono invece all'investigatore Santamaria preziosi spunti per uscire dal groviglio di indizi che circonda l'omicidio dell'urfido architetto.

Nonostante i quasi quarant'anni passati dalla prima edizione, LA DONNA DELLA DOMENICA continua ad essere tutt'ora un esemplare maiuscolo di narrativa gialla italiana, talmente vibrante, cattivo e azzardato da poter reggere il confronto con gli scafati contemporanei (Lucarelli, Camilleri e compagnia bella). Il libro offre anzi una lezione che meriterebbe di essere considerata e appresa anche da alcuni autori di oggi che, sempre ammaliati dal Maigret di Simenon (così come lo sono stati innegabilmente anche i nostri Fruttero & Lucentini) si cimentano con gialli introspettivi e sociologici, ma puntualmente si scordano che il giallo, in primis, deve sorreggersi su di un racconto granitico (penso, ad esempio e tra i tanti, ad alcune desolanti avventure del commissario Bordelli di Marco Vichi che ho letto di recente).

La DONNA DELLA DOMENICA resta dunque un punto di riferimento, esaltante nel piacere della lettura (vista anche la prosa raffinata e seducente) quanto lo erano le immagini del film con Mastroianni, la Bisset e Trintignant.

domenica 5 giugno 2011

UN BRAVO RAGAZZO | romanzo di Giampaolo Morelli (2011)



Giù negli umori del giovane maschio,
ovvero come venni arruolato nell'esercito del Generale Uccello


Morelli scrittore è una rivelazione a dir poco esplosiva.
Il viaggio breve ed esilarante attraverso vita e pensieri del sedicenne Raimondo Ricci, personaggio dai contorni piscologici nitidissimi e dalla vitalità prorompente, durante alcuni mesi determinanti della sua adolescenza, è un'esperienza di rara autenticità e coraggio.
L'impressione dominante è che Morelli abbia aperto completamente le porte alla magia dell'introspezione psicologica, con una sincerità disposta a tutto pur di non tradire il flusso genuino dei pensieri, dei sogni, delle frustrazioni, delle ossessioni e delle paure di questo suo piccolo eroe che non si dimentica facilmente, pur essendo l'incarnazione del più comune tra gli adolescenti.
Oltre all'universo del giovane maschio nelle sue fasi più prorompenti, il libro rispecchia con godibile fedeltà anche alcune altre micro-realtà e universi sociali e culturali del nostro paese: l'ambiente familiare alto-borghese, Napoli, i primi anni '90 (la copertina della prima edizione Fazi c'azzecca poco, però, con quel look tipicamente 2011 del ragazzotto visto di spalle).

Al centro di questo libro, che si legge tutto d'un fiato, resta comunque protagonista una breve fase dell'esistenza di un ragazzo qualunque, le sue sofferenze e le sue paure, analizzate fino al momento di scoprire che il segreto per superare il travaglio del cambiamento è racchiuso nella capacità d'aver la forza di assecondare le proprie pulsioni. Una vita autentica, raccontata con uno stile fluido, equilibrato, onestissimo.

Prima di affrettarsi a leggerlo ci sono alcune raccomandazioni da tenere a mente.

Intanto che è una storia che piacerà più ai lettori di sesso maschile, i quali ben conoscono cosa alberga nelle loro menti e nei loro cuori (chi più in profondità, chi meno), e che quindi apprezzeranno di più tutta questa cruda sincerità nel mettere in luce pregi e difetti dell'essere maschi, senza falsi pudori, senza nascondere a se stessi la meschinità dei pensieri quando si viene arruolati nell'esercito del Generale Uccello.
E poi che è un libro molto viscerale e sincero. Morelli non ha paura di "sporcarsi" le mani, anche fuor di metafora. Lo stesso deve essere pronto a fare il lettore.

Per fare qualche paragone spicciolo, va detto che la gioventù napoletana descritta da Morelli non si perde negli intellettualismi e nelle pastoie moral-religiose di quella piemontese dell'"Emmaus" di Baricco, ma ne vive nevrosi comuni, vicine anche alle recenti frustrazioni che abbiamo letto nei "Numeri Primi" di Giordano o nel succinto "Io e te " di Ammaniti, mentre siamo lontani - al contrario e per fortuna - dalle stucchevolezze nazional-popolari di Moccia.

Insomma, UN BRAVO RAGAZZO è un nuovo valido tassello nel ricco e prolifico filone di romanzi di formazione italiani, che ha così tanto prosperato nei nostri anni '10 e che sembra destinato a prosperare ancora, tra alti e bassi.

Nel suo mantenersi in un equilibrio ispirato e perfetto tra rappresentazione e pensiero, la prosa di Morelli sa di vita vera, e si fa amare, perdonare e godere, anche e soprattutto per questo.

mercoledì 18 maggio 2011

SOSTIENE PEREIRA | romanzo di Antonio Tabucchi (1994)








Su questo magnifico romanzo del 1994, divenuto a buon diritto un classico della nostra letteratura contemporanea, si sono versati fiumi di inchiostro, e quindi c'è poco da dire che non sia già stato detto.



Mi va di parlarne solo perchè provo un immenso piacere quando leggo un libro così suggestivo, impegnato, stimolante, raffinato ed emozionante come questo, e lo trovo al tempo stesso leggero e rinfrescante come bere un bicchier d'acqua. Con la sua prosa scorrevole, Tabucchi ci dimostra come la densità delle idee e dei pensieri non debba necessariamente tradursi in pesantezza concettuale. Insomma, un caso in cui la grande letteratura si legge con la stessa fluidità con cui si affrontano i romanzi d'evasione.



SOSTIENE PEREIRA è un libro che offre molti stimoli, come si conviene alla letteratura autentica. Tra i tanti spunti di riflessione, ovviamente quello che affascina maggiormente è l'invito all'impegno civile, che non si traduce mai in furore estremista o in rabbiosa sobillazione. Tabucchi offre invece una pacata invettiva, e lo fa plasmando un personaggio di straordinaria vitalità, questo pigro vedovo di mezz'età che neutralizza con la lettura e con il suo lavoro di recensore culturale per un giornale minore della Lisbona del 1938, in piena dittatura quindi, il dolore per il vuoto esistenziale in cui si è lasciato sprofondare dopo la morte dell'amata moglie. Pereira è un uomo di salde convinzioni religiose, appena consapevole dell'accidia che sta progressivamente incrostando le sue giornate. Nutre un grande rammarico per non aver potuto coronare gli anni di vita matrimoniale con la nascita di un figlio, e così si affeziona come un padre al giovane sprovveduto intellettuale in cui si imbatte quasi per caso, mentre attraversa una fase della sua esistenza sempre più votata al pensiero della morte e dell'abbandono. Il ragazzo Monteiro Rossi, che Pereira prende sotto la sua ala protettiva, e in seguito anche la sua affascinante ma enigmatica fidanzata Marta, stimolano nell'anziano un nuovo interesse per la vita, e soprattutto risvegliano il suo senso civico, la consapevolezza di avere un forte dovere di opporsi, con l'energia controllata e pacata propria dell'intellettuale, alle malefatte del regime dittatoriale di Salazar.



Uno spunto intenso, affascinante, che cattura l'attenzione del lettore fin dalle prime pagine e conduce a divorare in qualche giorno il romanzo. Una lettura quanto mai attuale, che ricorda a tutti i cittadini vigili e consapevoli l'obbligo morale di impegnarsi nel proprio quotidiano con rispetto, intelligenza, spirito critico e forte serietà dei costumi. Semplicemente grande.